lunedì 25 marzo 2013

L'EDITORIALE - L'insostenibile abitudine italiana dei tifosi.



(editoriale a cura di Demetrio Marrara)
Quanti di voi si ricorderanno l'ex genoano Beppe Sculli andare sotto la curva dei tifosi del Genoa per trattare con i capi ultras?
Bene, questa pessima abitudine tutta italiana è tornata a farsi pressante nei campionati di Serie B. Nella 33/a giornata i protagonisti sono i tifosi di Vicenza e Spezia.

SOCIAL - CASO KATIDIS, un braccio alzato di troppo

Giorgios Katidis

(articolo a cura di Emilio Scibona)
16 marzo 2013, in scena allo stadio Olimpico di Atene AEK-Veria, match valido per la Superleague Greca, la nostra Serie A. L'AEK è una delle squadre più importanti della Grecia ma quest'anno le cose non sono andate come al solito, anche perché l'AEK è in profonda crisi economica. Il match contro il disastrato Veria diventa dunque decisivo per allontanare lo spauracchio della retrocessione. All'84esimo minuto sul punteggio di 1-1 Giorgos Katidis devia in porta un tiro di un suo compagno di squadra segnando il gol del 2-1. Katidis è uno dei giovani più in vista del calcio greco, ha già militato nelle nazionali Under 17 e Under 19 di cui è stato capitano ed è stato da poco inserito nel giro dell'Under 21 ellenica. Per averlo dall'Aris Salonicco l'AEK ha sborsato 200mila euro, cifra che visti i soldi che girano oggi nel calcio moderno sembra ridicola, ma non lo è, considerando la crisi in cui versa l'AEK e le cifre spese per gli altri acquisti. Il gol che segna è pesantissimo, potrebbe pure valere una stagione. E Katidis lo celebra con grande foga, si leva la maglietta va sotto la curva e mentre i suoi compagni lo vanno a festeggiare Katidis protende il braccio destro verso la curva in delirio. Il gesto sembra, e con ogni probabilita è il saluto nazista, ovvero la gestualità con cui i gerarchi nazisti e in generale le persone omaggiavano Adolf Hitler, il Fuhrer, leader del Terzo Reich Tedesco ai tempi della Germania nazista. Il gesto ha subito una eco molto forte, ancor più del risultato, e la federazione greca decide di sospendere a vita Katidis dalle selezioni nazionali greche. Inoltre ieri l'AEK lo ha messo fuori rosa per tutta la stagione, "rinviandolo a giudizio" per giugno. A Katidis non è bastata nessuna giustificazione, il ragazzo ha affermato di non conoscere il significato del gesto e di non avere ne sentire alcuna appartenenza nazista. E' la verità? Questo non lo saprei dire e non penso lo sappiamo dire in molti.  L'errore commesso non è tanto quel gesto che questo ragazzo sta pagando a caro prezzo, ma non il non conoscere la storia del suo paese e il motivo per cui quel braccio alzato ha destato scalpore e indignazione. La storia della Grecia non è fatta solo di una millenaria tradizione, di grandi filosofi e letterati, di bellezze incommensurabili e di Giochi Olimpici, ma è fatta anche di ferite. Alcune di queste grondano fortemente sangue, come la crisi economica che ha messo in ginocchio e alla fame il paese e che fa passare in secondo piano tutto il resto. Un'altra ferita mai del tutto rimarginatasi è quella dell'invasione nazi-fascista. Seconda guerra mondiale. Son passati due mesi e mezzo dal 10 Giugno 1940, quando Benito Mussolini, duce e dittatore dell'Italia, annuncia l'ingresso in guerra del Regno dalla balconata di Piazza Venezia con l'intenzione, anzi con la certezza di "Spezzare le reni alla Grecia" come citò un famoso slogan pronunciato qualche mese dopo. Ma le truppe italiane non riuscirono nell'intento e furono imbrigliate dall'esercito greco. Nell'Aprile del 1941 intervenne allora la Wehrmacht, ovvero l'esercito tedesco, che con il classico Bltizkrieg(guerra lampo) sbaragliò in poco tempo le tenaci ma non abbastanza forti difese greche. La Grecia divenne possedimento italiano, mentre i tedeschi tennero per loro i posti più strategici, dal porto di Salonicco fino ad Atene ed instaurarono un governo collaborazionista. La Grecia per quella guerra pianse più di 13mila morti, ebbe 42 mila feriti, e 10mila prigionieri, perdendo inoltre per un periodo la propria sovranità nazionale. Non una roba da niente. In un periodo storico che vede la Grecia allo stremo delle forze quasi come all'epoca del conflitto e in cui nel paese "Alba dorata" il partito ultra-nazionalista con simboli e ideali che ricordano, nemmeno troppo vagamente il NSDAP tedesco, ottiene dei seggi in parlamento, informarsi non era poi così difficile. Credo che le questioni politiche non debbano entrare in un campo di calcio, la politica con il calcio non c'entra nulla, il calcio è tutt'altra cosa. Credo che invece la storia debba entrare nei campi di calcio, perché il calcio della storia in un qualche modo fa parte oggi e sicuramente farà parte un domani. Penso che a 20 anni si è abbastanza giovani e si ha il diritto, nei limiti del lecito, di poter sbagliare, ma si ha anche il dovere di capire dov'è l'errore e di rimediare a questo. Io son del parere che a questo ragazzo vada data una seconda chance, non credo che sia giusto che per un gesto, per quanto pesante, gli sia tolta la possibilità di rappresentare qualora lo meritasse il suo paese. Lo si aiuta di più facendogli capire dove sta l'errore piuttosto che punendolo come si fa con i bambini capricciosi, con la differenza che la punizione dura per sempre. Credo, o almeno mi auguro, che una volta capito il motivo per cui quel braccio alzato fa ancora male, non lo terrà più in quel modo nemmeno se glielo steccano.

giovedì 21 marzo 2013

STORIE DELL'ALTRO SPORT - Pietro, hai tagliato l'ultimo traguardo

Pietro Mennea

(Articolo a cura di Demetrio Marrara)


Non è facile raccontare la storia di Pietro Mennea, soprattutto per degli appassionati di calcio che hanno seguito sporadicamente le imprese dell'atletica leggera. Oggi mi sento in dovere di farlo, di interessarmi a Pietro come atleta e come uomo. Di capire chi fosse e cosa abbia rappresentato per l'Italia. Mennea nasce a Barletta nel 1952. Un ragazzo del sud, come me, cresciuto tra disagi e difficoltà. Il padre, Salvatore, era un sarto e sua madre, Vincenza, era una semplice casalinga. Come la maggior parte degli individui nati e cresciuti al Sud l'unico comun denominatore della sua vita è stato lottare per qualsiasi cosa. La sua palestra è stata quella della strada. Le sue corse, le scommesse con gli adulti per guadagnarsi un panino, un ingresso libero al cinema. Un personaggio introverso, timido, schivo. Diffidente. Fatto più di silenzi che di parole, più di fatti che di chiacchiere. Ad un certo punto della sua vita iniziò a capire che forse la corsa sarebbe diventata la sua vita. Forse la corsa poteva riuscire ad estraporarlo da quel ambiente sociale disastrato, da quella povertà comune a molti. Fu proprio quando iniziò a scappar di casa per fare delle gare clandestine. Gare che vedevano come protagonisti lui e le macchine. L'uomo, privo di timore, e un mezzo meccanico. Questi episodi spesso al centro di scommesse, di serate finite in rissa. Botte date e botte prese. Un pò come la sua vita.
In questi momenti Pietrò capì cosa avrebbe voluto fare da grande. Una persona forgiata dalla personalità, dalla tenacia, dalla faccia tosta. Negli anni del 68 quando le rivolte giovanili infiammano la penisola e i ragazzini sognavano di diventare come Cassius Clay.
In momenti come questi un ragazzino potrebbe perdere di vista l'obiettivo, lasciarsi influenzare. Questo non accade, però, se hai al tuo fianco una persona che ti guida, su cui puoi fare cieco affidamento.
E' il caso del Prof. Autorino, vero mentore e insegnante di educazione fisica. Senza dimenticare il Prof Vittori e il Prof Mascolo.
Le continue sconfitte nel cortile della scuola, le perplessità dell'ambiente sportivo che riteneva il suo fisico troppo debole e gracile. I pugni alzati di Tommie Smith, la voglia di cercare di colmare il gap con gli uomini, ritenuti alieni, di colore e il russo Borzov, suo idolo. Sono questi gli elementi che gli fanno capire cosa vuol essere nella vita.
La vita dell'atleta si sa, è fatta di sacrifici. Di continui allenamenti, di cadute, di ostacoli. A questo punto solo un uomo vero, come lui, può decidere di mettere da parte tutto e concentrarsi esclusivamente sul sogno della sua vita.
Gli ambienti erano scadenti, poco propensi per potersi allenare come si deve. Barletta era fondamentalmente una città umida. Umida e fredda come la palestra in cui si allenava.
Pallamolla, il ragazzo più veloce della sua scuola, servì da incentivo per la sua carriera. Una vittoria sull'odiato, agonisticamente, compagno di scuola gli fece scattare la molla. Decise di dedicarsi completamente all'atletica leggera, abbandonando di fatto la marcia.
I pugni alzati di Tommie Smith divennero il suo punto di riferimento. Aveva deciso. Voleva fare i 200m e voleva essere il più veloce. Rischiò, nel 1969, di entrare a far parte dei campionati Europei di Atene risultando il più veloce nelle prove del Viareggio. Nel 1971 arrivarono i primi risultati: finalista nei 200m e bronzo nella staffetta 4x100.
Pieretto, cosi veniva chiamato simpaticamente dal clan azzurro, entrò nella storia nel 1980 a Mosca. Diventò l'uomo più veloce del mondo sui 200m firmando il tempo di 19''72. Un tempo che rimase record per 17 anni!
"Sono nero dentro" diceva il buon Pietro.
Ancora ad oggi Mennea rimane un personaggio da scoprire. Mai primadonna, assolutamente modesto, mai una parola fuori posto.
Una metafora della vita. Un uomo che non si è rassegnato mai. Un uomo che ha lottato per tagliare i traguardi, per oltrepassare gli ostacoli che la vita gli poneva davanti. Solo col sudore, con la voglia, con l'impegno si possono ottenere dei risultati. Un esempio per tutti, grandi e piccoli.
Il più grande rimpianto di tutti, me compreso, è che nessuno ha saputo cogliere la grandezza di questo personaggio, di questo uomo. Ci ha beffato tutti. Ha corso troppo veloce di nuovo. Prima che tutti noi potessimo notarlo.
Addio Freccia del Sud, hai tagliato il tuo ultimo traguardo.

STORIE DELL'ALTRO SPORT - Quando il calcio va oltre lo sport.


(articolo a cura di Demetrio Marrara)

Nessuna sfida tra Italia e Brasile. Nessun Neymar, nessun Thiago silva. Niente Pirlo, Buffon e nemmeno Balotelli. La partita più attesa del weekend delle nazionali è sicuramente Croazia-Serbia, non di certo per motivi sportivi. In questo caso la partita va oltre il calcio stesso, oltre lo sport, oltre il dare un calcio ad un pallone e fare gol. Questa sera in campo ci saranno i giocatori, ma fuori la faranno da padrona altri fattori.
Si parla di argomenti grandi, immensi, di problemi atavici e di questioni tremendamente serie.

Storia di guerre, di precedenti, di politica, di geografia. Di mentalità costrette a coesistere, di pensieri obbligati a convivere sullo stesso suolo.
Una polveriera pronta a prendere fuoco non appena la miccia venga innescata.

Croazia e Serbia si affrontano per la prima volta in una partita di calcio dalla scissione dell'ex-Jugoslavia.
Nel 1999 si giocò la partita tra i croati e gli jugoslavi, ma non era la stessa cosa perchè ancora il Montenegro faceva parte della Jugoslavia.

Lo stadio che ospiterà la partita questa sera è il Makmisir di Zagabria. Lo stesso che doveva, all'epoca, ospitare il derby tra Stella Rossa di Belgrado e Dinamo Zagabria. Una partita che non si giocò mai, nel maggio del 1990, perchè dopo l'elezione di Tudman (che voleva fare della Jugoslavia una confederazione) a presidente dell'Unione democratica croata, scoppiò la guerriglia. Era il preludio alla guerra civile che di lì a breve sfociò in una vera e propria guerra di indipendenza.

Quella notte, 3000 "tifosi serbi", chiamarli tifosi è un eufenismo, appartenenti alla Tigre di Arkan, un gruppo paramilitare oppositore alle voglie indipendentiste dei croati, seminò il panico a Zagabria ferendo 60 tifosi della Dinamo. La polizia, di maggioranza serba, li lasciò agire per lunghi tratti poi quando i tifosi croati tentarono di invadere il campo per rispondere ai serbi, decisero di intervenire.
Storico, fu il calcio rifilato dal campione croato Zvonimir Boban ad un poliziotto serbo che stava prendendo a mazzate un tifoso della Dinamo.

23 anni dopo la situazione, ovviamente, è notevolmente mutata. Speriamo di non assitere più a nulla di tutto ciò, ma la memoria resta ardentemente viva negli occhi di chi l'ha vissuta.

La Uefa, negli anni, si è impegnata notevolmente nel combattere le guerre lanciando messaggi di pace.
Platinì ha scritto privatamente una lettera ai due presidenti delle rispettive Federazioni calcistiche.
Il messaggio, però, non è stato colto da tutti. Il neo allenatore della Croazia Stimac aveva provocatoriamente proposto che fosse Ante Gotovina (capo dell'esercito croato accusato di pulizia etnica sui serbi, assolto nel 2012) a battere il calcio d'inizio. Dall'altra parte c'è il mito Sinisa Mihajlovic, nato sulle sponde del fiume Vuka, a Vukovar. Una cittadina croata che il presidente serbo Nikolic, definisce di proprietà serba.

Insomma, il clima resta teso ma speriamo che questa sia solo una partita di calcio in cui la Croazia, capolista del gruppo A, se la giochi a viso aperto contro la Serbia, che cerca di rimontare i 6 punti di svantaggio.

Il calcio, come spesso accade, ha questa volta il compito di mandare un messaggio importante. Lo sport è anche questo. Un mezzo di comunicazione di massa, un esempio per le popolazioni. Appuntamento a stasera, alle 18 per una partita che definire tale è fin troppo riduttivo.

domenica 17 marzo 2013

L'EDITORIALE - CASO JOVETIC. Jojo perchè non parli?

Stevan Jovetic, stella della Fiorentina
(editoriale a cura di Demetrio Marrara)

"Chiamatemi Jojo, ma non sono Baggio".
Lo aveva detto lui stesso, il 27 luglio 2008, che l'accostamento a Baggio non era appropriato. Un ragazzo timido, modesto, che non voleva sentirsi l'ennesima etichetta addosso. La Fiorentina, nella figura del direttore Corvino, ha creduto immensamente in lui, tanto che fu prelevato dal Partizan per 8 mln di euro. Una cifra abbastanza elevata per un ragazzo appena maggiorenne.
Il suo idolo era Shevchenko, diceva, e il suo sogno era quello di giocare con il connazionale Vucinic. Il suo maestro Sinisa Mihajlovic lo schiera da prima punta, col senno di poi, indovinando questa soluzione. Jojo non ama giocare alle spalle di una punta, anche se i match disputati con Toni, potrebbero far pensare il contrario. Lui è esploso da prima punta, un pò anarchica e atipica, nonostante si possa pensare il contrario.

domenica 10 marzo 2013

SOCIAL - Iniziativa magnifica

Una lodevole iniziativa quella organizzata dal PAD Football Projects, società di scouting giovanile. Nel mese di febbraio, infatti, i vertici di questa organizzazione, insieme ad alcuni esponenti del calcio giapponese presente in Brasile, sono riusciti a portare un sorriso in terre distrutte dal disastro atmosferico (lo Tsunami) di due anni fa esatti.

Uno stage in quel di Fukushima tenutosi dal 16 febbraio al 2 marzo che ha visto il coinvolgimento di varie figure di spicco, quali tre tecnici giovanili italiani (tutti della PAD) e il preparatore dei portieri Moreira, brasiliano della sub-17 dell'Avaì.

Buona la risposta della "stampa giapponese" che ha seguito passo passo tutto ciò che accadeva intorno a questi bambini, un'iniziativa che ha consentito, anche se per pochi giorni, di far ritrovare il sorriso a chi è stato meno fortunato.

venerdì 8 marzo 2013

SOCIAL - CASO NIGERIA,Quando l'omofobia diventa persecuzione.


(articolo a cura di Demetrio Marrara)

E' di un paio di giorni fa l'annuncio shock dato dalla presidentessa, Dilichukwu Odyeninma, della Federcalcio Femminile Nigeriana:

"L'omosessualità è da oggi ufficialmente proibita nel calcio nigeriano. Qualsiasi calciatrice che sarà ritenuta colpevole di tale attitudine o atteggiamento sarà estromessa dalla selezione o da tutte le competizioni ufficiali"

ECONOMY - MLS,More Than Soccer


( di Giacomo Costa) Un campionato conosciuto sopratutto grazie ai giocatori prossimi alla “pensione”, ma la Major League Soccer non è solo questo. Nell'articolo seguente vi spiegherò le regole particolari del campionato composto da vecchie glorie ma anche da tanti giovani pronti a spiccare il volo. Un campionato in continuo sviluppo e miglioramento che vuole entrare di prepotenza nel top del calcio mondiale.


mercoledì 6 marzo 2013

L'EDITORIALE - Inglesi. Inventori sì, vincitori mai.



(Editoriale a cura di Mario Apparente)
E’ storicamente tangibile e indubitabile la difficoltà che la nazionale di calcio dell’Inghilterra patisce nell’imporsi a livello continentale e mondiale in competizioni ufficiali. Peraltro negli ultimi anni, con l’avvento di nuove realtà calcistiche e il dominio in campo internazionale dei club spagnoli (per l’appunto il Barcellona, che nel 2011 infranse i sogni di gloria del Manchester United nella finale di Wembley) anche i club della federazione inglese stanno attraversando un periodo di magra a cui per rincarare la dose seguono performance imbarazzanti e indegne per quelli che teoricamente rappresentano il paese indicato come manifesto del calcio. Certo, in casa loro è tutto tremendamente diverso, offrono alla gente lo spettacolo che in molti vorremmo vedere in Italia ma ben diverso è quando una squadra inglese ne affronta una di un paese differente con una cultura calcistica propria che di certo si riflette sul campo di calcio. Ed è verosimilmente proprio il confronto fra culture e stili differenti a rendere affascinanti le due principali competizioni internazionali per club: la Champions League e soprattutto l’ Europa League, a dispetto dei molti italici che la considerano una coppetta e vorrebbero sopprimerla.